Per le ristrutturazioni di edifici civili, la percentuale minima di incidenza della manodopera sul valore totale del cantiere dovrà essere del 22 per cento. Sotto questa soglia, scatteranno le verifiche e l’impresa potrà essere dichiarata irregolare.
Si tratta di un provvedimento anticipato da diversi atti: il decreto legge 76/2020 e l’accordo collettivo del 10 settembre 2020, che individua i nuovi indici di congruità, divisi per tipo di lavori e recepiti oggi dall’esecutivo. L’obiettivo è doppio: contrasto al lavoro nero e ai fenomeni di dumping contrattuale.
Il decreto agisce sui lavori pubblici, su quelli privati (solo sopra i 70mila euro), sui subappalti, ma anche in caso di lavoratori autonomi coinvolti nell’esecuzione. E riguarda tutte le attività «direttamente e funzionalmente connesse all’attività resa dall’impresa affidataria dei lavori, per le quali trova applicazione la contrattazione collettiva edile». Si parte dai lavori denunciati a partire da novembre 2021.
Il riferimento saranno i dati comunicati alla Cassa edile sul valore complessivo dell’opera e sul valore dei lavori edili previsti. Prima del saldo finale dei lavori, l’impresa dovrà richiedere proprio alla Cassa edile l’attestazione di congruità della manodopera. Qualora non sia possibile rilasciarla, le difformità riscontrate saranno comunicate in maniera analitica all’impresa, con l’invito a regolarizzare la sua posizione entro quindici giorni. Scaduto questo termine, scatterà l’iscrizione nella Banca dati delle imprese irregolari.
Qualora lo scostamento dagli indici sia pari o inferiore al 5%, l’attestazione potrà essere rilasciata, previa dichiarazione del direttore dei lavori che giustifichi tale scostamento. In alternativa, l’impresa non congrua potrà dimostrare il raggiungimento della percentuale di incidenza della manodopera, mediante esibizione di documentazione idonea ad attestare costi non registrati presso la Cassa edile.
A favore di alcune categorie di lavoratori, non coperte da ammortizzatori e in difficoltà per le chiusure conseguenti alla crisi epidemica, già sostenute dal decreto Ristori, l’articolo 10, comma 1, del decreto Sostegni (Dl 41/2021) interviene con una nuova una tantum di 2.400 euro destinata a coprire i primi tre mesi del 2021, erogata dall’Inps.
All’indennità potranno fare ricorso (comma 2) sulla base di determinati requisiti anche gli appartenenti alle stesse categorie che abbiano perso o ridotto il lavoro dopo il 30 novembre scorso, data di entrata in vigore del Ristori quater, sulla base di una domanda da presentare entro il 30 aprile all’Istituto. Ecco le categorie interessate.
Settore turistico-termale
L’indennità è destinata anzitutto ai dipendenti stagionali del turismo e stabilimenti termali, compresi quelli in somministrazione, i quali abbiano cessato involontariamente il rapporto di lavoro tra il 1° gennaio 2019 e il 23 marzo 2021, data di entrata in vigore del decreto Sostegni. Per accedere ai fondi gli interessati devono avere svolto almeno 30 giornate di lavoro nello stesso periodo e non essere titolari alla stessa data di pensione, rapporto di lavoro dipendente o Naspi. Per i lavoratori con contratto a termine non titolari di pensione e rapporto di lavoro dipendente sempre al 23 marzo scorso l’indennizzo è consentito se titolari di uno o più contratti per almeno 30 giornate dal 1° gennaio 2019 e di altrettanti anche nel corso del 2018.
Stagionali e intermittenti
Pari condizioni di accesso all’indennità – riduzione o sospensione involontaria del lavoro dall’inizio 2019 al 23 marzo 2021 e almeno 30 giorni lavorati nello stesso arco di tempo – sono stabilite anche per gli stagionali dipendenti e somministrati in settori diversi da quello turistico e termale e per gli intermittenti.
Autonomi e venditori
Se non iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie, l’indennità spetta anche ai lavoratori autonomi occasionali senza partita Iva e privi di contratto al 23 marzo 2021, i quali alla stessa data risultino già iscritti alla Gestione separata con accredito di almeno un contributo mensile dal 1° gennaio 2019, nonché ai venditori a domicilio iscritti alla Gestione separata con reddito 2019 superiore a 5mila euro.
Tanto gli stagionali di altri settori, quanto gli autonomi e i venditori, al momento della domanda non devono essere titolari di altro contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, diverso dal contratto intermittente, o essere titolari di pensione.
Settore spettacolo
Un tetto massimo di reddito condiziona il percepimento dell’indennità da parte dei lavoratori dello spettacolo. Nel caso di iscritti al Fondo pensioni dello spettacolo con almeno 30 contributi giornalieri versati tra il 1° gennaio 2019 e il 23 marzo 2021 i 2.400 euro spettano con un reddito 2019 non superiore a 75mila euro (50mila nel decreto Ristori), a condizione che non siano titolari di pensione, né di contratto di lavoro a tempo indeterminato diverso dal contratto intermittente senza corresponsione dell’indennità di disponibilità. La medesima indennità, infine, è prevista per gli iscritti al Fondo pensioni dello spettacolo con almeno 7 contributi giornalieri versati e reddito non superiore a 35mila euro.
Il Governo con l’art. 14 del c.d. decreto Agosto (D.L. 14 agosto 2020, n. 104) interviene nuovamente sul tema “caldo” del divieto di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo e dei licenziamenti collettivi. Si tratta della terza proroga del divieto de qua: il divieto introdotto inizialmente dall’art. 46 del Decreto c.d. Cura Italia (D.L. n. 18/2020) fino alla data del 17 maggio, era stato ulteriormente prorogato con il Decreto c.d. Rilancio (D.L. n. 34/2020) fino alla data del 17 agosto, con un periodo di “vacatio” di due giorni per il divieto in questione, considerato che il Decreto Rilancio è entrato in vigore a partire dal 19 maggio. La novità prevista dal Decreto Agosto è l’assenza di un termine fisso per il divieto di licenziamento, termine fisso sostituito invece da una scadenza che potremo dire mobile, e che può essere determinata leggendo in combinato disposto l’art. 1 del D. L. 104/2020 che introduce un nuovo periodo di ammortizzatori sociali da utilizzare entro il 31 dicembre 2020 per un totale di 18 settimane, e dall’altra parte all’art. 3 una agevolazione contributiva per un periodo massimo di 4 mesi fruibili sempre entro il 31 dicembre per i datori di lavoro che non utilizzeranno il nuovo periodo di ammortizzatori sociali.
Pertanto, fermo il limite ultimo del 31 dicembre, i datori di lavoro potranno avviare procedure di licenziamento collettivo (artt. 4, 5, 24 l. 223/1991) e intimare licenziamenti per giustificato motivo oggettivo solo dopo aver concluso il periodo di ammortizzatori sociali previsti dall’art. 1 del Decreto o soltanto dopo aver fruito dell’agevolazione contributiva prevista dall’art. 3 del D.L. 104/2020.
Pertanto in considerazione dei due diversi termini di riferimento ancorati rispettivamente alle due diverse norme, il primo giorno utile per procedere con licenziamenti per giustificato motivo oggettivo potrebbe essere sensibilmente diverso. L’agevolazione contributiva di cui all’art. 3, infatti, è pari al doppio delle ore di integrazione salariale già fruite nei mesi di maggio e giugno. Un’impresa che avesse adoperato poche ore di cassa integrazione nei mesi di maggio e giugno (ad esempio, due settimane) trascorso solo un mese dal 17 agosto, potrebbe procedere a licenziamenti per giustificato motivo oggettivo ex art. 3 della legge n. 604/1966.
Le complessità di natura applicativa risultano aggravate, però, dalle difficoltà ermeneutiche risultanti dalla formulazione a dir poco nebulosa del secondo comma dell’art. 3 il quale dispone che “al datore di lavoro che abbia beneficiato dell’esonero di cui al comma 1, si applicano i divieti di cui all’articolo 14 del presente decreto”. La norma così enunciata sembrerebbe creare una sorta di corto circuito giuridico che potrebbe far pensare ad una sorta di definitività del divieto di licenziamento una volta che il datore di lavoro abbia optato per la soluzione dell’esonero contributivo. Una lettura sistematica della norma, consente ad avviso di chi scrive di rigettare tale tipo di conclusione ermeneutica, in quanto da una parte creerebbe una fattispecie di divieto di licenziamento sine die palesemente incostituzionale e dall’altra non apparirebbe conforme all’impianto previsto dalla norma che intende chiaramente vincolare il divieto di licenziamento
alla durata delle misure straordinarie introdotte dal Governo (periodo di fruizione degli ammortizzatori sociali o dell’esonero contributivo).
Il comma 3 dell’art. 14 introduce alcune deroghe al divieto di licenziamento:
In vista dell’avvio della c.d. “FASE 2” con la graduale riapertura delle imprese a partire dal 4 maggio, Governo e parti Sociali hanno ritenuto opportuno aggiornare il 24 aprile 2020 il precedente Protocollo di regolamentazione per il contenimento della diffusione del covid-19 nei luoghi di lavoro, stipulato in data 14 marzo 2020. Pochi giorni prima, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro aveva emanato la nota n. 149 del 20 aprile 2020, con la quale ha fornito ai propri ispettori le linee guida da utilizzare per accertare il rispetto delle misure anti contagio all’interno dei luoghi di lavoro, controlli che potranno essere effettuati in sinergia con le ASL locali. E’ importante evidenziare che nel caso in cui il personale ispettivo dovesse accertare eventuali violazioni non comminerà alcuna sanzione al datore di lavoro, ma si limiterà a trasmettere le risultanze dell’accertamento ispettivo alla Prefettura competente, che nel caso delle violazioni più gravi potrebbe valutare una interdittiva dell’attività aziendale. All’uopo è interessante sottolineare come alla citata nota del 20 aprile l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha allegato – tra gli altri – un modello di verbale di accesso e verifica, denominato “Covid-19” ed una interessante check-list (che risulterà essere parte integrante del verbale) da ausilio al personale ispettivo, con risposte binarie del tipo SI/NO e che consentiranno la puntuale verifica degli obblighi informativi, organizzativi endoaziendali ed esoaziendali (accesso dei fornitori esterni), di pulizia e sanificazione nonché di tutela della sicurezza dei lavoratori mediante gli appositi DPI.
A mio avviso tale check-list diventa un utilissimo strumento per i Responsabili della Sicurezza per verificare puntualmente il rispetto degli obblighi e riscontrare eventuali carenze.
Vediamo allora quali sono questi obblighi previsti dal Protocollo condiviso del 24 aprile e che saranno oggetto di verifica da parte del personale ispettivo.
Obbligo Informativo
Uno degli elementi fondamentali del Protocollo sulla Sicurezza è rappresentato dalla corretta informazione dei lavoratori sulle best practices da utilizzare in chiave anti contagio. Il datore di lavoro dovrà informare tutti i lavoratori e chiunque entri in azienda (ad esempio i fornitori o il personale esterno come i soggetti distaccati) per il tramite di dépliant informativi circa:
Modalità di ingresso in azienda e gestione degli spazi comuni
L’accesso agli spazi comuni come mense e spogliatoi dovrà essere necessariamente contingentato e nel rispetto della distanza di sicurezza minima di un metro tra le persone. L’azienda dovrà limitare al minimo gli spostamenti all’interno dell’azienda, evitando le riunioni in presenza fisica e limitandole a casi eccezionali e prevedendo un massimo di partecipanti rapportati all’ampiezza della sala. L’azienda dovrà sospendere tutti gli eventi interni e le attività di formazione in aula, anche quelle di natura obbligatoria.
Pulizia e sanificazione in azienda
L’azienda dovrà provvedere ad una sanificazione e pulizia periodica degli ambienti e delle postazioni utilizzate da più lavoratori, come tastiere di computer, schermi touch screen, mouse, telefoni, ecc.
Qualora le operazioni di sanificazione dovessero rendere impossibile la continuazione dei processi produttivi, il datore di lavoro potrà ricorrere agli ammortizzatori sociali previsti dal decreto Cura Italia D.L. n. 18/2020.
Nel caso in cui il datore di lavoro dovesse accorgersi della presenza di una persona con COVID-19 all’interno dei locali aziendali, dovrà effettuare procedure di sanificazione approfondite dei locali dove ha stazionato, attraverso una pulizia accurata delle superfici ambientali con acqua e detergente, seguita dall’applicazione di disinfettanti comunemente usati a livello ospedaliero, come l’ipoclorito di sodio – 0.1% -0,5% così come suggerito dall’OMS. Una volta proceduto a disinfettare gli ambienti, questi dovranno poi essere oggetto di ventilazione, così come spiegato dal Ministero del Salute, nella circolare n. 5443 del 22 febbraio 2020. Ricordiamo che l’art. 64 del D.L. 18/2020 prevede un credito di imposta pari al 50% per le spese di sanificazione sostenute nel 2020.
Dispositivi di protezione individuale
Organizzazione aziendale
L’azienda dovrà sospendere tutte le trasferte ed i viaggi di lavoro ed utilizzare, per quanto possibile, la modalità di lavoro agile. Laddove non si riesca a collocare in sicurezza i lavoratori, l’azienda potrà utilizzare tutti gli ammortizzatori sociali disponibili previsti dagli artt. 19 e ss. del decreto legge 18/2020 o favorendo, preliminarmente, tutti gli istituti contrattuali in possesso dei lavoratori (fruizione di ferie arretrate e non ancora fruite, ROL e banca ore).
Sorveglianza sanitaria
Al fine di implementare tutte le misure di regolamentazione legate al COVID-19 e segnalare situazioni di particolare fragilità da parte di dipendenti con patologie attuali o pregresse, il medico competente dovrà cooperare con il datore di lavoro, con il Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS) e con il Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale (RLST).
Potranno essere costituiti comitati interni aziendali con la partecipazione delle rappresentanze sindacali aziendali e del Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS) o – nel caso di assenza di rappresentanza aziendale – Comitati territoriali con il coinvolgimento dei Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza territoriale (RLST) e rappresentanti territoriali delle parti sociali.
L’articolo 63 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, cosiddetto “Cura Italia”, ha introdotto un bonus di 100 euro netti da corrispondere con la retribuzione di aprile a favore dei lavoratori dipendenti, pubblici e privati, con eccezione dei lavoratori domestici, e con reddito complessivo nell’anno precedente non superiore a 40.000 euro, che durante il periodo di emergenza sanitaria COVID-19, abbiano prestato servizio nella sede di lavoro nel mese di marzo 2020. In modo particolare il premio spetta ai titolari di redditi da lavoro dipendente di cui all’art. 49, comma 1, del Testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e non concorre alla formazione della base imponibile ai fini delle imposte dirette.
Ai fini del limite dei 40.000 euro, si tiene conto solo ed esclusivamente dei redditi sottoposti a tassazione progressiva IRPEF e non anche quelli assoggettati a tassazione separata o ad imposta sostitutiva (ad esempio, i premi di risultato detassati, ai sensi dell’articolo 1, comma 182 e ss., della Legge n. 208/2015) tutto ciò in coerenza con quanto stabilito dalla circolare Agenzia delle Entrate n. 28/E del 15 giugno 2016 in materia di premi di risultato. La norma ricomprende nei redditi di lavoro dipendente solo quelli previsti dal primo comma dell’articolo 49, escludendo le pensioni di ogni genere e gli assegni ad esse equiparati.
I sostituti provvederanno a recuperare il premio erogato attraverso l’istituto della compensazione orizzontale, di cui all’art.17 del decreto legislativo n. 241 del 1997, senza necessità di trasmissione preventiva della dichiarazione da cui emerge il relativo credito. L’Agenzia delle Entrate, con la risoluzione n. 17/E del 31 marzo 2020, al fine di consentire ai sostituti d’imposta di recuperare in compensazione il suddetto premio erogato ai dipendenti, ha istituito i seguenti codici tributo da esporre nella sezione Erario dei modelli F24 e F24 “Enti Pubblici” (F24 EP), i quali dovranno essere presentati esclusivamente attraverso i servizi telematici e per il modello F24 “enti pubblici” (F24 EP) il codice “169E”.
Il premio va rapportato al numero dei giorni di lavoro svolti nella propria sede di lavoro a marzo.
Il comma 2 prevede, inoltre, l’automaticità della erogazione a partire dalle retribuzioni corrisposte dal mese di aprile 2020, e comunque entro i termini previsti per le operazioni di conguaglio, da parte dei datori di lavoro che rivestono la qualifica dei sostituti di imposta.
Il premio spetta anche al lavoratore a tempo parziale, senza alcun tipo di riproporzionamento legato all’orario di lavoro effettivamente svolto. Qualora il lavoratore abbia più contratti a part-time, restando fermo il limite massimo di 100 euro, sarà quest’ultimo a dover individuare il sostituto d’imposta che lo dovrà erogare mediante un’apposita autocertificazione. E’ opportuno che anche il lavoratore assunto nel corso del 2019 autocertifichi la presenza dei limiti reddituali previsti dalla norma.
Per quanto concerne i giorni da considerare, le prime interpretazioni fornite dalla Agenzia delle Entrate con la circolare n. 8/E del 3 aprile 2020, avevano lasciato perplesso gli operatori delle risorse umane, in quanto venivano considerate come giornate “neutrali” al fine del calcolo del premio le assenze giustificate da ferie e malattia. Tale iniziale interpretazione estensiva da parte dell’Agenzia è stata rettificata con la risoluzione 18/E del 9 aprile 2020, interpretazione che appariva contraria alla ratio della norma, finalizzata ad incentivare e premiare i lavoratori che hanno continuato a svolgere la loro prestazione lavorativa presso la sede operativa aziendale durante l’emergenza epidemiologica.
Pertanto, al fine del computo delle giornate di lavoro effettivo per il calcolo del bonus, non si considerano le giornate di lavoro espletate in telelavoro o in lavoro agile (smart-working) e – come chiarito la risoluzione del 9 aprile sopra citata – vanno escluse le giornate nelle quali il lavoratore è stato assente dal lavoro per ferie, malattia, nonché Cassa integrazione, permessi retribuiti o non retribuiti, congedi o aspettative. Vengono invece ricomprese nelle giornate lavorate le prestazioni svolte in trasferta e/o in distacco presso altra azienda.
Qualora il lavoratore, abbia cessato il rapporto di lavoro durante il mese di marzo 2020, l’azienda dovrà riproporzionare il premio al numero di giorni di lavoro svolti nella sede di lavoro, prima della cessazione.
L’esatta quantificazione del bonus si ottiene dividendo l’importo di 100 euro per i giorni lavorabili del mese – secondo le previsioni previste dal contratto di lavoro – e moltiplicando il risultato per i giorni effettivamente lavorati secondo le indicazioni sopra menzionate.
Il Decreto c.d. Crescita (D.l. 34/2019) convertito con L. n. 58/2019 prevede all’art. 5 un sostanziale restyling della normativa agevolativa finalizzata ad incentivare il rientro dei c.d. cervelli impatriati.
La materia è stata oggetto di un articolato substrato normativo, che ha avuto origine con la legge n. 238/2010 e ha visto susseguirsi diversi interventi legislativi propedeutici al decreto c.d. internazionalizzazione che ha reso strutturale l’incentivo fiscale per gli impatriati. In modo particolare l’art. 16 del d.lgs. 147 del 2015 prevedeva uno sconto sull’imponibile fiscale dei lavoratori reimpatriati pari al 30%, innalzato poi al 50% con la legge di Stabilità 2016 (l. 232/2016, art. 1 c. 150) a partire dall’anno di imposta 2017.
In tale prospettiva il Decreto Crescita è intervenuto al fine di rendere ancora più appetibile il bonus impatriati, intervenendo sui requisiti previsti dal comma 1 dell’art. 16 del D.lgs. 147/2015 per l’ottenimento delle agevolazioni. In primiis viene esteso il Bonus anche ai redditi di impresa prodotti dai lavoratori impatriati, purché quest’ultimi avviino un’attività di impresa in Italia a partire dal 2020. L’agevolazione fiscale, inoltre, è ampliata dal 50% al 70%. Questo implica che i redditi da lavoro autonomo, da lavoro dipendente o di impresa, concorreranno solo per un 30% alla formazione dell’imponibile fiscale. La precedente formulazione dell’art. 16 prevedeva ala lettera a) che il lavoratore impatriato non dovesse essere stato residente in Italia nei 5 anni precedenti il trasferimento; tale requisito viene ridotto a due periodi di imposta precedenti il trasferimento con l’obbligo di mantenimento della residenza in Italia per almeno due anni successivi al trasferimento. La norma secondo la novella legislativa introdotta dall’art. 5 non prevede categoricamente che l’impresa debba essere residente nel territorio dello Stato, ma semplicemente che l’attività lavorativa venga svolta prevalentemente in Italia, senza tra l’altro che il lavoratore rivesta ruoli aziendali apicali e/o di elevata specializzazione e/o qualificazione. Lo sconto fiscale ha una durata strutturale di 5 anni, con la possibilità di proroga per ulteriori 5 anni qualora il dipendente abbia almeno un figlio minore a carico, o sia divenuto proprietario di un immobile residenziale in Italia successivamente al trasferimento o nei 12 mesi successivi al trasferimento. L’esenzione fiscale aumenta al 90% qualora il lavoratore abbia almeno 3 figli minorenni a carico. Il nuovo comma 5-bis riduce ulteriormente il reddito imponibile dei primi 5 anni al 10% qualora i lavoratori trasferiscano la propria residenza in una delle regioni del mezzogiorno.
Interessantissima è poi la disposizione contenuta nel nuovo art. 5-ter. L’iscrizione all’AIRE, infatti, non è più condizione per la fruizione delle agevolazioni fiscali, essendo sufficiente che i soggetti impatriati abbiano avuto residenza in uno Stato con il quale sia stata stipulata una convenzione contro le doppie imposizioni. Tale norma ha efficacia retroattiva, potendosi anche applicare ai soggetti che avevano beneficiato del bonus fiscale nella precedente formulazione e che avevano, inoltre, instaurato un contenzioso con l’Amministrazione Finanziaria. L’efficacia retroattiva, tuttavia, non potrà consentire il rimborso delle imposte versate in adempimento spontaneo.
Il “clamore mediatico” che ha caratterizzato l’introduzione del Reddito di cittadinanza, ha lasciato sotto traccia un elemento interessante della nuova normativa, rappresentato dalle potenziali agevolazioni contributive in favore dei datori di lavoro che assumono soggetti fruitori del Reddito di cittadinanza. È opportuno precisare che la piena operatività delle agevolazioni sarà subordinata ad una serie di chiarimenti ermeneutici e di prassi amministrativa (INPS in primiis) che consentiranno di esplicitare le concrete modalità di fruizione.
Il Decreto legge n. 4 del 29 gennaio 2019 istitutivo del Reddito di cittadinanza (RdC) prevede all’art. 8 incentivi economici per i datori di lavoro che assumeranno un percettore di Reddito di cittadinanza. Agevolabili sono le assunzioni effettuate da tutti i datori di lavoro privati, inclusi, quindi, tutti i datori di lavoro che non sono imprenditori (studi professionali, associazioni di tendenza, fondazioni, società cooperative ecc.)
In modo particolare al datore di lavoro verrà riconosciuta sotto forma di esonero dei contributi previdenziali, la differenza tra tra i diciotto mesi di RdC e quanto già goduto dal percettore, per un importo della agevolazione contributiva comunque non inferiore alle cinque mensilità. Nel caso di rinnovo del RdC, previa sospensione mensile come previsto dall’art. 3 comma 6 del Decreto n. 29/2019, l’esonero sarà concesso in misura fissa per un importo pari a 5 mensilità. L’agevolazione stante al tenore letterale della prefata norma, riguarderebbe non solo i contributi a carico del datore di lavoro ma anche la quota a carico del lavoratore. Rimangono esclusi dalla agevolazione contributiva i premi assicurativi dovuti all’INAIL. L’agevolazione contributiva viene aumentata di una mensilità nell’ipotesi di assunzione di donne o di soggetti c.d. “svantaggiati” secondo la definizione contenuta nell’art. 2, comma 4, Regolamento UE 651/2014, vale a dire coloro:
a) che non hanno un impiego
regolarmente retribuito da almeno 6 mesi;
b) che
hanno un’età compresa tra i 15 e i 24 anni;
c) che
non possiedono un diploma di scuola media superiore o professionale (livello
Isced 3) o che non hanno completato la formazione a tempo pieno da non più di
due anni e non hanno ancora ottenuto un primo impiego regolarmente retribuito;
d) che
non hanno superato i 50 anni di età;
e) che
vivono da soli con una o più persone a carico;
f) che
sono occupati in settori o professioni caratterizzati da un tasso di disparità
uomo-donna che supera almeno del 25% la disparità media uomo-donna;
g) chi
appartiene ad una minoranza etnica ed ha la necessità di migliorare la propria
formazione linguistica e professionale.
L’esonero non potrà comunque essere superiore ai 780 euro mensili e superare il tetto mensile dei contributi dovuti per il lavoratore beneficiario del RdC.
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Il datore di lavoro privato che abbia intenzione di fruire dei benefici contributivi ipotizzati deve, preventivamente, comunicare, ad una apposita piattaforma digitale, di prossima istituzione, le disponibilità relative ai posti vacanti. Qualora l’assunzione avvenga tramite l’attività di un soggetto accreditato ex art. 12 del D.Lgs. n. 150/2015 (agenzie di somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione del personale e supporto alla ricollocazione professionale) una parte degli importi del Reddito di cittadinanza viene “trasferita” a favore di tali soggetti. Uno dei limiti evidenti della norma, è rappresentato dai requisiti che dovrà avere l’assunzione del soggetto percettore:
Sempre più spesso si ravvisano a livello giurisprudenziale condotte da parte dei lavoratori – cassieri, addetti e/o commessi di vendita nel commercio al dettaglio – che hanno ad oggetto episodi in cui la carta fedeltà, propria o di soggetti terzi, viene impropriamente utilizzata dal dipendente al fine di trarne un vantaggio diretto e/o indiretto. Molto spesso le carte fedeltà consentono di accumulare punti che possono, a loro volta, essere tramutati in buoni sconto da utilizzare in diversi punti vendita.
Si tratta di condotte che pur cagionando in molti casi un danno economico esiguo, incrinano de facto il rapporto fiduciario e vengono sanzionate con un licenziamento disciplinare da parte del datore di lavoro. La Cassazione, con la recente sentenza 11181/2019, ha ritenuto legittima la decisione presa dalla Corte d’appello in merito al licenziamento della cassiera di un negozio, provvedimento ritenuto illegittimo, invece, dal Giudice di prime cure. La dipendente ometteva di consegnare 8 buoni sconto riservati ai clienti titolari di una carta fedeltà ed accumulati sul 10% del valore complessivo della spesa. I buoni sconto trattenuti dalla dipendente, pari ad un valore di 24,09 euro, sono stati poi utilizzati dal marito della stessa per pagare la spesa.
La Cassazione osserva che la Corte d’appello ha ben valutato il venir meno dell’elemento fiduciario nel rapporto con il datore di lavoro «indipendentemente da una valutazione economica dell’entità del danno causato…certamente non rilevante», valorizzando invece la gravità della condotta, ricollegata alla truffa.
Alla base di questa pronuncia della Cassazione, vi è un indirizzo maggioritario che pone l’accento alla rilevanza che viene attribuita al vincolo fiduciario che caratterizza il rapporto di lavoro subordinato in collegamento diretto con i doveri di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. Così, per Cass. n. 18184/2017, deve ritenersi legittimo il licenziamento della cassiera di un supermercato che aveva indebitamente accreditato sulla sua carta punti l’importo della spesa effettuata da altri clienti in maniera da accumulare una somma rilevante che avrebbe poi speso sotto forma di sconti; in questo caso infatti, secondo la Corte, si è in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, considerato anche che la lavoratrice era perfettamente a conoscenza di tenere un comportamento espressamente vietato dal regolamento aziendale.
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Cass. n. 8703/2018 riguarda invece una lavoratrice che ricopriva le funzioni di store manager la quale effettuava in un solo anno, 67 transazioni con utilizzo di carte di sconto assegnate a due dipendenti che però erano estranei al punto vendita e non erano nemmeno presenti al momento dell’acquisto. Qui ad essere censurata è stata non solo la condotta ma soprattutto la reiterazione dei fatti addebitati con l’aggravante che quest’ultimi erano stati commessi dal responsabile del punto vendita. Inoltre la garanzia di pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti non trova applicazione laddove il licenziamento faccia riferimento a situazioni concretanti violazione dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro. Nella fattispecie, Cass. n. 8535/2012 ha ritenuto legittimo il licenziamento di un cassiere che, in modo sistematico, accreditava sulla propria tessera i punti premio relativi ad acquisti effettuati da soggetti terzi. Per tali ragioni Cass n. 18184/2017 considerava legittimo il licenziamento di una cassiera colpevole di aver accreditato l’importo della spesa fatta dai clienti sulla propria carta punti, in più occasioni durante un periodo di circa 7 mesi. In questo modo, la lavoratrice aveva accumulato punti equivalenti alla somma di 50 euro, spendibile sotto forma di sconti presso i supermercati aderenti al circuito della fidelity card.
Dalla analisi giurisprudenziale emerge come il danno patrimoniale delle condotte contestate è, molto spesso, esiguo. Tuttavia per quanto concerne la nozione di tenuità del danno, l’orientamento prevalente della giurisprudenza evidenzia come ai fini dell’accertamento della giusta causa di licenziamento si deve considerare il disvalore intrinseco della condotta, senza che abbia rilievo l’entità del danno che ne possa conseguire (inter alia Cass. n. 10842/2016; Cass. n. 21017/2015 , Cass. n. 2017, n. 18184, Cass. 24014/2017).
L’originaria disciplina contenuta nel Decreto legge di urgenza n. 87 del 2018, che tante critiche aveva ricevuto da parte degli operatori giuridici per quella sostanziale assimilazione tra contratto a tempo determinato e contratto di somministrazione il quale – ricordiamo – ha natura commerciale, è stata profondamente ritoccata in sede di conversione con la L. n. 96/2018, la quale ha consentito di mitigare alcuni potenziali effetti perversi della norma contenuta nell’art. 2 D.L. 87/2018. Viene mantenuto il principio in base al quale, anche al rapporto di lavoro tra Agenzia di somministrazione e lavoratore somministrato trova applicazione il Capo III del D.lgs. 81 /2015, si applicano, quindi, le norme in materia di contratto a tempo determinato, con le uniche eccezioni per le norme contenute negli articoli 21, comma 2, 23 e 24 e vale a dire:
Come detto, al rapporto di lavoro tra Agenzia e lavoratore somministrato si applica il Capo III del D.lgs. 81 /2015, e quindi il nuovo art. 19, che stabilisce che la stipula di un contratto di lavoro a tempo determinato “a-causale” possa avvenire solo ed esclusivamente per un periodo di durata non superiore ai 12 mesi. Il contratto potrà avere una durata superiore ai 12 mesi ed entro i limiti dei 24 mesi, solo in presenza delle seguenti causali:
Il comma 1-ter introdotto all’art. 2 del D.L. 87/2018 da parte della legge di conversione introduce una locuzione che creerà non poche difficoltà ermeneutiche, affermando che le causali previste dal nuovo art. 19 comma 1, in caso di ricorso al contratto di somministrazione di lavoro, si applicheranno solo all’utilizzatore, con implicazioni pratiche piuttosto dubbiose nell’ipotesi di somministrazione superiore ai dodici mesi. Prima dell’intervento legislativo, le causali erano inserite esclusivamente nel contratto commerciale; ora, sebbene l’indicazione della causale spetta all’utilizzatore, ciò implicherà comunque una serie di effetti negativi in capo al vero titolare del rapporto, vale a dire l’Agenzia di somministrazione, che dovrà valutare attentamente con il cliente le ragioni giustificatrici dell’eventuale proroga o rinnovo del contratto di somministrazione per un periodo superiore ai 12 mesi. Per quanto concerne il numero di proroghe, ricordiamo che l’art. 34 comma 2 del D.lgs. 81/2015 il quale non è stato riformato, prevede apertis verbis l’esclusione dell’applicazione dell’ art. 21 (Proroghe e rinnovi) del D.lgs. 81/2015 al rapporto a tempo determinato tra somministratore e lavoratore da inviare in missione. Il regime delle proroghe è quindi disciplinato dal CCNL del somministratore, in tal senso l’art. 47 del CCNL Agenzie di somministrazione prevede un numero di proroghe pari a 6.
In sede di conversione è stato introdotto il comma 02 all’art. 2 del D.L. 87/2018, stabilendo una nuova percentuale di utilizzazione dei lavoratori somministrati. Fermo restando il limite legale del 20% dei contratti a tempo determinato c.d. “diretti” dell’utilizzatore, il numero dei lavoratori assunti con contratto a termine o in somministrazione a tempo determinato non potrà superare complessivamente il limite del 30 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore al 1° gennaio dell’anno di stipulazione dei predetti contratti, con arrotondamento del decimale all’unità superiore qualora esso sia eguale o superiore a 0,5. Rimarrà in ogni caso esente da limiti quantitativi la somministrazione a tempo determinato di lavoratori di cui all’articolo 8, comma 2, della legge 23 luglio 1991, n. 223, (si tratta dei lavoratori in stato di mobilità, la cui inclusione da parte del legislatore appare pleonastica tenuto conto della cancellazione delle liste a partire dal 1° gennaio 2017) di soggetti disoccupati che godono da almeno sei mesi di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali e di lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati ai sensi dei numeri 4) e 99) dell’articolo 2 del regolamento (UE) n. 651/2014 della Commissione, del 17 giugno 2014, come individuati con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali.
Infine il comma 1-bis della legge di conversione, produce la reviviscenza della somministrazione fraudolenta, fattispecie che si realizza quando la somministrazione di lavoro è posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore. In questa fattispecie si realizza una ipotesi di responsabilità solidale, con il somministratore e l’utilizzatore che verranno puniti con la pena dell’ammenda di 20 euro per ciascun lavoratore coinvolto e per ciascun giorno di somministrazione fraudolenta.
Dopo l’approvazione in Senato lo scorso 7 agosto 2018, è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la Legge n. 96 del 9 agosto 2018 di conversione del D.L. n. 87/2018 c.d. Decreto Dignità. Vediamo quali sono le principali novità apportate dal Decreto, anche alla luce delle modifiche subite dal Decreto Legge di urgenza durante l’iter parlamentare di conversione.
Uno degli aspetti caratterizzanti della nuova normativa, è rappresentato dalla modifica dell’art. 19 comma 1 del D.lgs. 81/2015. Il nuovo art. 19 prevede che la stipula di un contratto di lavoro a tempo determinato “a-causale”, possa avvenire solo ed esclusivamente per un periodo di durata non superiore ai 12 mesi. La durata massima del contratto a tempo determinato si riduce a 24 mesi, contro i precedenti 36 mesi previsti dal Jobs Act. Il contratto può avere una durata superiore ai 12 mesi solo in presenza delle seguenti causali:
Ora, dal tenore letterale della norma, ci si ritrova in un colpo d’occhio a compiere un balzo indietro di almeno 40 anni per quanto concerne la tecnica legislativa. Le ragioni giustificatrici all’apposizione del termine, vanno aldilà del c.d. “clausolone” previsto dalla normativa precedente al Decreto c.d. Poletti ed al Jobs Act, vale a dire il D.lgs. 368/2001 con le sue ragioni tecniche, organizzative, produttive e sostitutive, producendo una reviviscenza della defunta legge n. 230/1962, e la connessa giurisprudenza formatasi alla luce della precedente normativa.
In modo particolare, soprattutto l’ultima causale nella sua formulazione letterale, sembra foriera, a nota di chi scrive, di potenziali contenziosi nonché dubbi ermeneutici ed applicativi. In primis, gli incrementi temporanei, significativi e non programmabili, devono sussistere tutti insieme? O sarà sufficiente solo una delle condizioni per consentire la legittima stipula di un contratto a tempo determinato oltre i 12 mesi? La genericità delle espressioni adoperate, rischia di lasciare ampi margini di discrezionalità ermeneutica al giudice del lavoro, con un potenziale di contenzioso assolutamente ragguardevole.
In sede di conversione al D. L. 87/2018, è stato inserito il comma 1-bis dell’art. 1, il quale stabilisce che in caso di stipulazione di un contratto superiore ai 12 mesi in assenza di una delle causali giustificatrici previste dal comma 1 dell’art. 19, il contratto si trasforma in un contratto a tempo indeterminato dalla data di superamento dei 12 mesi. Vale comunque l’ “exit strategy” prevista dal comma 2 dell’art. 19 del D.lgs. 81/2015, che consente alla contrattazione collettiva, anche aziendale, alla luce dell’art. 51 del D.lgs. 81/2015, di derogare al limite massimo dei 24 mesi. Tale limite massimo può essere derogato anche con la stipula di un nuovo contratto a tempo determinato, della durata massima di dodici mesi, presso la direzione territoriale del lavoro competente per territorio.
Proroghe e rinnovi
L’art. 21 del D.lgs. 81/2015 è stato profondamente modificato. E’ stato inserito il comma 01 il quale statuisce che il contratto a termine può essere rinnovato solo in presenza di una delle causali previste dal comma 1 dell’art. 19.
Per quanto concerne le proroghe, un rapporto di lavoro a tempo determinato può essere liberamente prorogato solo nel periodo massimo dei 12 mesi, in caso contrario la proroga dovrà essere sostenuta da una delle ragioni previste dal comma 1 dell’art. 19. Il numero massimo delle proroghe passa da 5 a 4 nell’arco dei 24 mesi, e quindi il contratto a tempo determinato si considererà a tempo indeterminato a partire dalla data di concorrenza della quinta proroga (non più la sesta).
Le nuove ragioni giustificatrici di proroghe e rinnovi, non trovano applicazione per le attività stagionali, per il personale artistico e tecnico delle Fondazioni di produzione musicale e le altre casistiche previste dall’art. 29 del D.lgs. 81/2015, nonché alle “start-up innovative” previste dall’art. 25 della legge n. 221/2012 per il periodo di quattro anni dalla loro costituzione o per il “riproporzionamento” di tale periodo previsto dalla stessa norma per le società già costituite.
Contributo addizionale
Il contributo introdotto dall’art. 2, comma 28, della legge del 28 giugno 2012, n. 92, vale a dire l’1,4 % che grava oggi sull’imponibile contributivo di tutti i contratti a tempo determinato, e finalizzato a finanziare l’Aspi (ora Naspi) viene incrementato di 0,5 punti percentuali in occasione di ciascun rinnovo del contratto a tempo determinato, anche in somministrazione.
Termine dell’impugnazione
L’art. 1 comma 1, lettera c) del D.L. n. 87/2018 ha ampliato i termini di impugnazione del contratto a tempo determinato, che passano da 120 a 180 giorni dalla cessazione del singolo contratto, secondo una delle modalità previste dall’art. 6 della legge n. 604/1966.
Disciplina transitoria
Il D.L. 87/2018 peccava di un errore eziologico che rischia di diventare patologico anche alla luce della legge di conversione n. 96/2018: mancava di una disciplina transitoria. La legge di conversione è corsa ai ripari prevedendo un regime transitorio che rischia, tuttavia, di generare enormi dubbi ermeneutici, anche in attesa dei chiarimenti amministrativi che comunque non potranno in alcun modo vincolare il giudice del lavoro. Il corto circuito giuridico ha portato de facto a 4 regimi:
E’ importante evidenziare come il regime transitorio riguardi solo le norme relative alla durata massima (anche a scopo di somministrazione) e la disciplina delle proroghe e dei rinnovi. Tutte le altre disposizioni (come l’aumento della aliquota contributiva) risultano immediatamente applicabili.
Facciamo alcune esempi per comprendere al meglio il regime transitorio, cercando – contestualmente – di sollevare alcuni dubbi in merito:
Gli operatori ed i tecnici del diritto, attendono con ansia i primi chiarimenti amministrativi.