Il caso Amazon: la somministrazione a tempo determinato tra limiti ed incertezze operative

DiPaolo Rotella

Il caso Amazon: la somministrazione a tempo determinato tra limiti ed incertezze operative

Ancora oggi, alla luce dell’introduzione del D.lgs. 81/2015, uno dei decreti attuativi del c.d. Jobs Act, permangono numerosi dubbi ermeneutici sui limiti di operatività della somministrazione a tempo determinato. Il caso Amazon recentemente ha riportato alla ribalta la tematica dell’uso o abuso della somministrazione a tempo determinato (impropriamente definita ancora oggi come lavoro interinale) portando – come spesso avviene in questi casi – ad estremizzazioni o j’accuse prive di fondamento.

Non dobbiamo dimenticare che la somministrazione a tempo determinato rappresenta un validissimo strumento per far fronte alla stagionalità, a picchi di lavoro, e risponde perfettamente ad alcune esigenze di flessibilità produttiva che contraddistinguono specifiche attività come ad esempio le produzioni alimentari. Orbene, a livello sistematico, la prima e opportuna precisazione è quella che ci porta a definire i contorni del rapporto di somministrazione. Quando si parla di somministrazione è fondamentale distinguere tra due rapporti che viaggiano paralleli: da una parte, abbiamo il contratto commerciale tra agenzia di somministrazione ed utilizzatore, dall’altra il sottostante contratto di lavoro subordinato tra agenzia di somministrazione e lavoratore  somministrato.

Per quanto concerne il rapporto di lavoro tra agenzia di somministrazione e lavoratore somministrato, quest’ultimo può essere a tempo determinato o a tempo indeterminato. Nel caso di assunzione a tempo determinato, però, per il rapporto di lavoro tra somministratore e lavoratore non trovano applicazione le disposizioni di cui agli articoli 19, commi 1, 2 e 3, 21, 23 e 24 del D.lgs. 81/2015 e cioè tutte quelle disposizioni che riguardano il contratto di lavoro a tempo determinato “standard”: l’apposizione del termine, la durata massima (art. 19), le proroghe e i rinnovi (art. 21), il numero complessivo di contratti a tempo determinato (art. 23) e i diritti di precedenza (art. 24). In tale prospettiva, gli unici limiti previsti sono quelli indicati dall’art. 34 comma 2 del D.lgs. 81/2015, che rimandano alla contrattazione collettiva applicata dal somministratore. In tal senso il CCNL delle agenzie di somministrazione all’art’ 47 prevede che “il termine inizialmente posto al singolo contratto di lavoro può essere prorogato fino ad un massimo di 6 volte. Il singolo contratto, comprensivo delle eventuali proroghe, non può avere una durata superiore a 36 mesi. Il periodo temporale dei 36 mesi si intende comprensivo del periodo iniziale di missione, fermo restando che l’intero periodo si configura come un’unica missione.”

Per quanto attiene, invece, ai limiti posti dalla legge in materia di somministrazione di lavoro a tempo determinato, quest’ultimi sono soltanto quelli “quantitativi” previsti dai contratti collettivi applicati dall’utilizzatore (art. 31, comma 2), il cui mancato rispetto comporta la possibilità per il lavoratore di agire in giudizio per ottenere la costituzione di un rapporto di lavoro direttamente alle dipendenze dell’utilizzatore ex art. 38 (esattamente quello accaduto nel caso Amazon). Tale rimedio, tuttavia, non risulta previsto dal legislatore nel caso di mancato rispetto delle limitazioni previste dall’art. 34 comma 2 del D.lgs. 81/2015 in materia di contratto a tempo determinato stipulato tra agenzia di somministrazione e lavoratore somministrato.

Ora, poste tali premesse, sembrerebbe possano sorgere dubbi interpretativi alla luce dell’art. 19 del D.lgs. 81/2015  che così recita: “ Fatte salve le diverse disposizioni dei contratti collettivi, e con l’eccezione delle attività stagionali di cui all’articolo 21, comma 2, la durata dei rapporti di lavoro a tempo determinato intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, per effetto di una successione di contratti, conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale e indipendentemente dai periodi di interruzione tra un contratto e l’altro, non può superare i trentasei mesi. Ai fini del computo di tale periodo si tiene altresì conto dei periodi di missione aventi ad oggetto mansioni di pari livello e categoria legale, svolti tra i medesimi soggetti, nell’ambito di somministrazioni di lavoro a tempo determinato. Qualora il limite dei trentasei mesi sia superato, per effetto di un unico contratto o di una successione di contratti, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di tale superamento” (comma 2).

In tale prospettiva, in passato il Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali, aveva specificato nella famosa circolare n. 18/2012 (in vigenza del precedente D.lgs. 368/2001) che il limite dei 36 mesi riguarda solo ed esclusivamente il contratto a tempo determinato, e nulla a che vedere il contratto commerciale tra utilizzatore ed agenzia di somministrazione.

Ora, una interpretazione così “a maglie larghe” della norma, potrebbe senza alcun dubbio violare il principio di non discriminazione del lavoratore somministrato. Tra l’altro, molto spesso nei rapporti commerciali di somministrazione, l’utilizzatore non si limita ad accettare passivamente i lavoratori scelti dal somministratore, ma “indica” come soggetti da somministrare, lavoratori già mandati in missione presso lo stesso utilizzatore e che quindi oltre a conoscere la realtà organizzativa aziendale, presentano una certa “affidabilità”. Pensiamo al caso di un lavoratore, che in forza di più contratti a tempo determinato con la stessa agenzia di somministrazione, venga inviato in missione per un periodo superiore ai 36 mesi presso uno stesso utilizzatore, in forza di un unico contratto a tempo determinato prorogato per più di 6 volte, e quindi in violazione dell’art. 47 del CCNL agenzie di somministrazione. Secondo l’interpretazione ministeriale, tale lavoratore non potrebbe richiedere la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato nei confronti dell’utilizzatore, in quanto il rapporto di lavoro risulta essere formalmente stipulato con un soggetto terzo. Al lavoratore non resterebbe che richiedere la trasformazione del rapporto presso l’agenzia di somministrazione per violazione della norma pattizia contenuta nell’art. 47 del CCNL.

E’ da notare che non esiste ancora giurisprudenza sul tema del possibile utilizzo “fraudolento” della somministrazione a tempo determinato (il celebre caso Poste ha visto la pronuncia della Cassazione in vigenza delle norme contenute nel D.lgs. 276/2003) ma non è mancata in dottrina (D’Addio) chi sostiene che in un’ottica sistemica, l’utilizzo costante e reiterato di più contratti di somministrazione a tempo determinato che coinvolgono lo stesso lavoratore, possa integrare una fattispecie di contratto in frode alla legge ex art. 1344 del c.c., con la possibilità – aggiungo io – di esperire il rimedio previsto dal comma 5 dell’art. 32 della l.n. 183/2010, c.d. Collegato lavoro, con richiesta di indennità risarcitoria fino ad un massimo d 12 mensilità, che potrebbe coinvolgere anche l’utilizzatore, in forza del principio della responsabilità solidale.

 

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Paolo Rotella editor